Il Meilogu alza le vele
di Manlio Brigaglia
Sa Tonca, in sardo logudorese, è il
nome della civetta. Ne ha anche un altro, che fa kukuméu o
anche, in gallurese, cuccumiàu. Nomi onomatopeici,
che vog1iono imitare il canto notturno di questo simpatico
uccello, diffamato dalla superstizione popolare. Hanno fatto
bene gli scienziati a chiamarla, alla latina, Athene Noctua,
che vuol dire "l'uccello notturno sacro a Minerva".
La civetta è il simbolo di Minerva-Athena, dea della
sapienza: e fa da vigilante ad Atene, culla di ogni sapienza
occidentale.
La dea era glaucòpide, la civetta ha grandi occhi gialli
per vedere al buio. Anche l'intelligenza è questo: occhi
possibilmente grandi per vedere nel buio delle cose che ci
circondano.
Bisogna sapere tutto questo, penso, prima di entrare, a Bànari,
nella casa che Giuseppe Carta ha apparecchiato per viverci
largamente ospitale e per ospitarci la Fondazione Logudoro
Meilogu di cui è fondatore, presidente, animatore e
lieto cireneo. (Vedo scritto Meilogu, nella carta intestata,
e mi congratulo: perché nessuno è riuscito ancora
a spiegarmi da quale invenzione del fondamentalismo linguistico
di casa nostra venga la lezione "Mejlogu" con quella
incongrua j di Juventus).
Bisogna saperlo perché Sa Tonca si chiama la casa, e
perché in ogni angolo, su ogni pezzo di cornice, quasi
su ogni piano delle cento etagères, su ogni ribalta
di camino c'è, dipinta, disegnata, scolpita, soprattutto
formata dalle mani di decine di ceramisti amici, la Civetta
protettrice.
Leggo che l'antico palazzo in trachite rossa è appartenuto
a nobili spagnoli. Meglio, probabilmente, a signori sardi nobilitati
dai conquistatori di turno, almeno quanto bastasse per aggiungere
un sonoro don ai loro nomi forse oscuri. Certo è che
dopo che Giuseppe Carta ha messo mano a ristrutturarlo, questa
memoria di Spagna ha preso fortemente piede, si accampa su
per le antiche scale, dove la trachite rosa è anche
ròsa dai segni di passi secenteschi - si immaginano
stivali di gran fibbie, come quelli della vulgata costumistica
hol1ywoodiana (ma perché no Velasquez), circola in un
piano terreno protetto da volte come di convento (o di cucina,
ci fossero gran spiedi a girare nei camini).
La casa si prolunga in un breve patio, dove il gatto bianco
dorme ai piedi del grande forno. E come la casa s'affaccia
sul patio, così il patio s'affaccia sulla campagna.
In realtà, è la campagna che entra dentro il
patio: c'è un enorme mandorlo che dalla porzioncina
di giardino lì presso allunga il suo fogliame sulla
piccola corte, come un tetto tutto di verde.
Dal cancello lo sguardo corre alla vastità della vallata,
attraversata per lungo, tra i due estremi, dal nastro chiaro
della "Carlo Felice". Ma tra il cancello e la strada,
e dopo la strada l'ondulata sequenza di brevi colline che fanno
da sfondo, c'è una distesa dolce di onde di campagna
con tanti verdi che neppure Carta, forse (o forse che sì?),
avrebbe saputo graduarli così sapientemente, orlandoli
pezzo a pezzo con le scure schegge di basalto e le biancheggianti
tessere di tufo calcareo dei muriccioli barbari.
Giuseppe Carta s'affaccia spesso su questa discesa a valle.
Non so se la veda. Come avsse la vista a raggi x come certi
onniscienti alieni di fantascienza, lui vede sotto la vallata.
Perché da un po' di tempo ha fatto progettare a un manipolo
di architetti amici e complici quello che sarà (quando
che sarà) il vero Museo d'Arte contemporanea FLM (che
sta per Fondazione Logudoro Meilogu; e giustamente, anche se
la sigla evoca anche, curiosamente, qualcosa a mezzo fra i
gruppi rock di qualche decina di anni fa e una combattiva categoria
sindacale. Arte e Lotta. In fondo, un'iniziativa così ambiziosa
come questa è anche tutto quello).
Chi ha visto il progetto (per ora, mi pare, non molto più che
un'idea messa su carta a provarne un qualche primo effetto)
lo racconta così: un museo sotterraneo, che attraverso
un qualche camminamento parte da Sa Tonca; lo compongono grandi
sale a volta, aperte con finestroni sulla vallata, che prendono
aria anche da bocche collocate sul soffitto. Il modello, a
pensarci bene, è - visto dalla parte della vallata,
non dall'interno - una sorta di villaggio di domus de janas,
un Sant'Andrea Priu banarese; un villaggio di vivi, s'intende,
non - come quelli prenuragici - una piccola metropoli oltretombale.
Il progetto è ambizioso. Ma, come diceva un proverbio ricordato spesso da Salvatore Cambosu, «No conta chi
ti peses chitto, basta ch'indèvinas s'ora»: il
problema non è levarsi presto (e nei paesi contadini
si alzavano prima delle galline) quanto indovinare l'ora. Giuseppe
Carta l'ora vuole indovinarla. E siccome crede in un altro
proverbio ancora, che dice «In caminu s'acconza bàrriu»,
il carico si assesta, sulla groppa del cavallo (o magari anche
dell'asino), man mano che si cammina, ha deciso che è l'ora
di partire. Perciò si è messo in marcia, e si è gettato
sulle spalle un carico che farebbe tremare le vene e i polsi
a chiunque, Ma non, forse, a lui, che intanto ha mostrato che
cosa sa (e che cosa vuol) fare organizzando in questi anni
degli eventi che, visti nella prospettiva del Grande Progetto,
si capisce che erano degli assaggi, quel tastare passo passo
il terreno che fa il buon contadino prima di seminare.
Così parte con questa prima "rata" di collezione,
per la quale ha chiamato a raccolta non solo amici di ogni
parte d'Italia ma anche firme fra le più conosciute
del mondo dell'arte nel nostro Paese. Chi non sa quali misteriosi
canali s'attivino fra artista ed artista potrebbe restare meravigliato
dell'abbondanza e, più ancora, della prontezza delle
risposte che ha ricevuto. Dell'abbondanza, della prontezza
e anche della generosità delle risposte. Non pochi artisti
di inossidata fama hanno mandato qui a Banari (che sarebbe
come dire - senza offesa, tanto per dirla con Dante - nell'infima
lacuna dell'Universo) opere di imponenti dimensioni, spesso
appartenenti a periodi della loro attività che stanno
già tutti dentro la storia dell'arte italiana: come
si dice correntemente, davvero "pezzi da museo".
Già a questo primo incontro - per il quale l'area espositiva è quella
delle stesse stanze della vecchia casa, che ha ambienti che
s'adattano più che correttamente a questa funzione d'accoglienza
e di comunicazione – si potrà vedere più di
un centinaio di opere, fin da adesso sufficientemente rappresentative
di personalità, correnti e esperienze di diverse regioni
del Paese. E' un percorso che va dalla Sardegna di Video Anfossi,
Antonio Atza, Francesco Becciu, Franco Bussu, Graziano Cadalanu,
Giuseppe Cadoni, Vittorio Calvi, Liliana Cano, Giuseppe Carta,
Stefano
Chessa, Antonio Corriga, Alina e Michela Dettori, Salvatore
Fara, Francesco Farina, Carmela Foddai, Gino Frogheri, Mario
Gaspa, Tino Luciano, Giuseppe Magnani, Nicola Marotta, Valerio
Mazzanti, Meloninski da Villacidro, Igino Panzino, Carmine
Piras, Elio Pulli, Tonino Ruiu, Licia Sanna, Daniele Sistu,
Aline Spada, Gavino Tilocca, Sisinnio Usai al Piemonte di Alberto
Remo Carlo Lanteri, dalla Lombardia di Franco Brescianini,
Mauro Capelli, Giancarlo Cazzaniga, Laura e Salvatore Fiume,
Renato Galbusera, Maria Jannelli, Eugenio Mombelli, Daniele
Oppi, Ernesto Treccani e Marco Zambrelli, dal Veneto di Milvia
Bortoluzzi e Alessandra Ferron, e dall'Emilia Romagna di Giorgio
Cattani, Anna Maria Ferrari, Francesco Martani e Gabriella
Torri alla Liguria di Sergio Antola, Carlo Bracci, Aldo Cestino,
Gianmarco Crovetto, Sandro Cortesogno, Emanuele Luzzati, Mirella
Marini, Paolo Nutarelli, Gianni Sedda, Giuliana Tropea, Sergio
Zucca, dalla Toscana di Luca Alinari, Mario Madiai, Renzo Mezzacapo,
Luciano Preti e Giampaolo Talani all'Abruzzo
di Giovanni di Nino, dall'Umbria di Lia Foggetti e Elvio Marchionni
alla Marche di Claudio Sacchi, dal Lazio di Gianni Testa alla
Puglia di Pino di Gennaro, Salvatore Esposito, Nicola Maria
Martino e alla Sicilia di Lorenzo Cascio
e Vincenzo Nucci. Il fiore all'occhiello sarà la collezione
di terrecotte e bronzi di scultori che si chiamano Francesco
Ciusa, Arturo Dazzi, Achille d'Orsi, Emilio Greco, Nedda Guidi,
Leoncillo Leonardi, Marino Mazzacurati, Luciano Minguzzi, e
la collezione di dipinti di Giuseppe Biasi, Cesare Cabras,
Giovanni Ciusa-Romagna, Pietro Antonio Manca, Bernardino Palazzi,
Pippo Rizzo, Giuseppe Sciuti, Gino Severini, Mario Sironi,
Gavino Tilocca, e ancora Giuseppe Altana, Bruno Donzelli, Tommaso
Cascella, Emilia Comiti, Fernando de Filippi, Gino Gandini,
Libero Meledina, Sergio Ragalzi, e Ausonio Tanda, esposte per
la prima volta al pubblico sardo.
Un "viaggio italiano", ha detto Erica Monesi. Un
viaggio che comincia. Come Cristoforo Colombo, Giuseppe Carta
sa che cosa cerca ed è determinato ad arrivarci. Salutiamo
alle mure, come facevano i marinai amici alle navi che uscivano
dal porto per una lunga rotta, questa impresa che alza le vele
al sereno vento del Meilogu.
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